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Barbara   Polettini

SACRA A VENERE (APPUNTI IMPRECISI)

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1 luglio 2016, venerdì mattina 

Dovendo partire per il mare, decido di fare un salto in biblioteca per rifornirmi di letture (che so già che non farò). Tutti gli anni la stessa storia: mi prefiggo di fare un sacco di cose e finisce sempre che, quando sono là, prendo la sdraio e mi siedo sul limite tra acqua e terra, il naso pieno di vento, a guardare l'orizzonte. Così anche quest'anno. Ma il libro che ho preso, Angiolina di Pietro Caliari, mi guarda con insistenza dal tavolino da notte e siccome il sottotitolo recita “Racconto veronese del XVII secolo” e il primo capitolo si apre sulla Valpantena, decido di tenerlo, finendo con il rimandarne la lettura al ritorno. Penso che sarà un libro noioso, ma qualcosa mi dice di leggerlo comunque.

23 luglio 2016, sabato mattina

Inizio la lettura e fin dalle prime pagine sono attratta non tanto dall'intreccio, che intuisco simile ai Promessi Sposi, quanto dalla precisione dei dettagli che Caliari ha inserito nelle note. Una, in particolare, cattura la mia attenzione: l'etimo di Vendri, la contrada distante 15-20 minuti a piedi da casa mia, proprio dietro, verso Oriente. Caliari sostiene che Vendri derivi da Vicus Veneris, indicante un sito sacro alla Dea, un luogo che coincide con la piccolissima Chiesa di San Zeno. So dov'è. Vendri si trova a Est di Santa Maria in Stelle, dove c'è quel famoso ipogeo che mi dà il tormento da almeno due anni, per il quale un anno fa ho telefonato al parroco chiedendo di poter entrare a visitarlo, ricevendo un garbato “No”, a causa dei lavori di restauro in corso. “Ma quanto dureranno questi lavori?” “Almeno un anno...” Almeno. L'ipogeo è proprio sotto la chiesa. Caliari dice che Stelle, invece, deve il suo nome a Stelae, perchè lì ne hanno trovate alcune indicanti un cimitero pagano e inoltre spiega che “tra i cupi meandri sotterranei di un lungo, rumoreggiante acquedotto, esiste un Nympaeum, o vogliasi pure un tempietto idolatrico, dedicato a Trofonio, o a Mitra”. Come ho detto, vado spesso sul piazzale di quel luogo: sulla destra rispetto alla Chiesa c'è un portoncino con una scaletta che scende sotto terra, e sulla sinistra c'è il lavatoio, con la fontanella d'acqua che viene proprio dal luogo in cui, suppongo, si colloca l'ipogeo. Ho fatto delle ricerche e trovato delle immagini, e anche qualcuno che mi ha raccontato di esserci entrato parecchio tempo fa, ma di fatto, l'ipogeo rimane per me “chiuso”. Decido di telefonare a Michele, un ex collega che so essere appassionato anche delle cose antiche, per invitarlo a visitare l'altra chiesa, quella di San Zeno. Sono sicura che troveremo chiusa anche quella, visto che si tratta di una pieve isolata in mezzo ai campi, ma sarà comunque una bella occasione per scambiare due chiacchiere su argomenti di comune interesse e passione. Curiosamente, durante la chiamata per accordarci su ora e luogo di incontro, Michele mi accenna a un link che, a parer suo, dovrei visionare. Me lo invia e io lo ascolto: è una traccia audio su youtube, dove uno studioso parla del concetto di “nume” e di “genius loci”. È un concetto che mi è noto fin dai tempi del liceo, eppure mai prima di questa volta me ne è arrivata una comprensione così chiara e rotonda, forse grazie agli studi e agli esercizi che anche io ho sto portando avanti con determinazione, da un anno a questa parte. Ascoltando quell'audio di colpo mi è perfettamente chiara non solo la filosofia che sottostà al termine, ma anche la “fisica” e come il genius loci sia lo spirito, l'energia sottile che emana da un luogo e lo accende, la sua propria specifica e caratteristica emanazione energetica, ciò che lo anima permettendogli la vita. Un po' come lo spirito per l'essere umano. Mi cominciano a ronzare gli orecchi come quando vado sott'acqua: è la precisa sensazione che mi accompagna ogni volta che entro in contatto con qualcosa che non sta sulla superficie, ma più sotto, più in profondità. E improvvisamente, mi sento come se qualcosa di... qualcosa, non so spiegare cosa, fosse vicino. Più vicino a me.

25 luglio 2016, lunedì, ore 8

Michele arriva puntuale alle 8, sul piazzale dietro casa mia. Ci avviamo a piedi e nel giro di venti minuti siamo alla Chiesa di San Zeno, a Vendri, che si presenta, come mi aspettavo, chiusa. Secondo Caliari, è qui che sorgeva una cripta dedicata a Venere. Nel 4° secolo dopo Cristo, Zeno vi fece erigere una chiesa che fu poi oggetto di una serie di ristrutturazioni nel corso dei secoli. Osservo il dipinto sul timpano: rappresenta la città di Verona sullo sfondo e in primo piano il santo, moro, con il classico bastone papale alla cui spirale è appeso un pesce perchè, come vuole la tradizione, Zeno era un pescatore. Mentre Michele mi parla, io metto i piedi in una specie di canale che circonda tutta la chiesetta che, fra l'altro, è piccolissima, e comincio a girarci attorno. Mi sento i brividi. Siccome è ancora presto, poi gli propongo di allungarci fino a Santa Maria in Stelle, sempre a piedi, dove arriviamo alle 9 e qualche minuto. Davanti alla chiesa vedo il parroco... e ci riprovo: gli chiedo se non è possibile visitare l'ipogeo, solo per qualche minuto, ma lui declina e fa come se si accingesse a tornare in canonica. Poi, però, ha come un moto di ripensamento, un momento di esitazione impercettibile, ho l'impressione che in qualche modo “torni sui suoi passi”. Dice: “Comunque l'incaricato ai lavori arriva sempre alle 9 e parcheggia una Punto metallizzata proprio in quel punto lì. Se vede la macchina, vuol dire che lui è qui”. Il parroco ci dice anche che sul pavimento della chiesa ci sono dei bocchettoni che danno proprio sopra l'ipogeo, così io gli chiedo se posso entrare in chiesa. Lui non capisce la ragione della mia domanda, mi sorride e dice “Ma certo, tutti possono entrare in chiesa”; adduco come scusa il fatto di non avere le spalle coperte ma il motivo non è quello: mi rendo conto che non è a lui che sto chiedendo il permesso di entrare, ma a qualcos'altro, e che sto chiedendo il permesso di avvicinarmi “di più”. Dal pavimento della chiesa non si vede nulla, come previsto. Ci sono solo delle grate rotonde, simili a tombini, che danno sul buio, e sotto si sente il vuoto che risucchia. 25 luglio 2016, pomeriggio Verso le due del pomeriggio il testo “La città di dio” compare nella mia mente. Ne intuisco la struttura completa e comincia a sgorgare veloce pertanto lo scrivo subito, di fretta, carta e penna recuperati al volo, rimanendo poi per tutto il giorno in quella specie di stato catatonico che mi assale ogni volta che non sono io a decidere cosa scrivere. Sono attonita. Non avevo intenzione di scrivere nulla per almeno qualche mese e sono certa che quella produzione è collegata alla mia visita di questa mattina, inoltre ho la precisa sensazione di trovarmi di fronte ad un prodigio. Le ultime frasi sono della sera, arrivano verso l'ora di cena. Lo sistemo velocemente senza sforzo, senza difficoltà. So che ci sono come delle specie sbavature lessicali, delle imprecisioni ma il testo ha un ritmo molto preciso e definito e è esattamente così che l'ho sentito. Quindi lo pubblico in internet. Questo scritto mi ha lasciato in uno stato di morbidezza e serenità, la stessa che mi ha sfiorato la pelle e mi accompagna da quando ho messo i piedi sul canale del tempio.

26 luglio 2016, martedì mattina

Fa davvero molto caldo. Nella testa, ancora dal giorno prima, il pensiero fisso del tempio. Mi faccio la doccia, mi vesto, infilo nella borsa il secondo volume del Kremmerz, con l'intenzione di leggerne il capitolo sugli amanti seduta nel vigneto dietro la chiesa e esco, dirigendomi sulla strada che porta a Vendri. Uscendo dalla strada asfaltata e prendendo la salita che immette sulla collina, verso Oriente, a un certo punto si arriva a una zona incolta, piena di viole, in marzo, e di melissa, completamente in ombra. E lì c'è una fontanella. Mentre mi avvicino per rinfrescarmi, di colpo nella mia testa si affastellano tutti insieme uno sull'altro collegamenti e dettagli: quella fontanella deve portare la stessa acqua che parte dall'ipogeo di Santa Maria, e è lì che ci si deve lavare ritualmente prima di accedere al tempio. Mi sembra come se ci fosse qualcuno che mi sta dando delle istruzioni di comportamento per qualcosa che, allo stesso tempo, mi appare ovvio come se mi appartenesse da sempre. Non sono sicura di riuscire a spiegarmi bene. È come se il tempo di colpo non esistesse più e mi sento la commozione salirmi alla gola. I gesti che sto per fare sono gli stessi, rituali, che ha sempre fatto chi si recava al Tempio. Prendo l'acqua con le mani e mi bagno, mettendomene un po' anche sulla testa; respiro, poi, e faccio presenza al fatto di stare per avviarmi a un luogo sacro, mi metto in silenzio, un reale e profondo silenzio, e entro nel sentiero seminascosto fra le piante che conduce alla chiesetta. Sono sicura che stavolta la troverò aperta e ho un moto di gioia quando arrivo e vedo che sì, è aperta. Non c'è nessuno nei dintorni, non c'è anima viva, ma la chiesa, anzi, il tempio, il tempio di Venere, è aperto, è aperto per me. Ricaccio in gola le lacrime ed entro. Nello scarno minimalismo che rende quel luogo spoglio e direi quasi brutto, il mio sguardo cade su qualcosa di meraviglioso: il basamento su cui è posto l'altare. È rosa, di un rosa tenero, vivo, intenso, e sembra che riverberi o che pulsi, unico punto veramente vivo in quel delirio di riparazioni e ristrutturazioni che i secoli ci hanno posto sopra. Mi trasmette una sensazione fisica molto precisa, è simile a quando tu tieni una tortora fra le mani. Non leggo, naturalmente, il libro che ho portato con me. Invece respiro. Al ritorno, considero mentalmente i miei impegni dei prossimi giorni: mi terrò libera per tornare venerdì.

28 luglio, giovedì notte

Se non sbaglio avevo detto che non avevo intenzione di scrivere per un bel po'... e invece di nuovo, di getto, con prepotenza, stavolta esce Cassandra. Non solo lo scrivo, ma lo leggo anche e lo registro. Vorrei sapere che cosa realmente si smuove e perché, ogni volta che mi succede così.

29 luglio, venerdì mattina, poco prima delle 8

In apparenza, non sto attraversando un bel periodo (passa Saturno). Eppure, gli eventi che mi circondano non scalfiscono minimamente la profonda serenità che ho dentro, che non so bene da dove mi arrivi, ma che si sta stabilizzando in me per periodi sempre più lunghi. Vado al Tempio. Ho fatto altre ricerche, e ho scoperto che Igino collegava Venere alla costellazione dei pesci. Pare abbia fatto una contaminatio tra il mito di Venere e quello di Ishtar, ma indipendentemente da tutto ciò non posso non cogliere il collegamento con l'immagine del pesce del bastone pastorale di San Zeno. Oggi il tempio è chiuso, ma ripercorro volentieri il canale che lo circonda, con la consapevolezza dei brividini che mi attraversano e mi viene da sorridere di felicità, pensando a “quello che c'è lì”. Non torno subito a casa: sento di dover prima passare anche a Santa Maria, perchè è da lì che sgorga l'acqua della fontanella di Vendri, ne sono sicura, e voglio in qualche modo andare a “salutare” anche lei. Arrivo davanti alla chiesa e vedo due uomini. Devono essere gli addetti ai lavori all'ipogeo. Nello stesso istante in cui li vedo ho la certezza che stavolta entrerò. L'ipogeo è il primo fonte battesimale di Verona, voluto da Zeno nel 4 secolo d. C., evidentemente in concomitanza con la chiesetta di Vendri. Sorge su un antico ninfeo fatto costruire in epoca romana, da Publio Pompilio Corneliano, dedicato alle ninfe della sorgente del luogo. Ninfeo, o linfeo. Uno dei due uomini, il restauratore, è già scomparso giù dalla scala. L'altro, un signore che coordina i lavori, accoglie la mia richiesta senza resistenza. Mentre mi infilo dietro di lui lungo la piccola galleria che porta sotto la chiesa, sento una profonda gratitudine nei confronti della vita e di quello che mi sta dando. Il coordinatore mi mostra un segno inciso sul muro: è una X Ro, fatta dallo stesso Zeno quando “spiegava il Vangelo alla gente, per far scegliere se volevano diventare cristiani”. Bevo letteralmente ogni sua parola, ogni dettaglio che mi mostra e mi spiega: non sono un'esperta di storia e non so se effettivamente Zeno “abbia lasciato scegliere” o “abbia imposto”... ma questo non è importante. L'importante è che io sono lì dove c'era qualcosa prima dei cristiani, qualcosa a cui non so dare un nome ma che gli antichi sapienti chiamavano “genius loci”. Là sotto si sente rumore di acqua, scorre proprio accanto, sulla sinistra dietro al muro. Non si può spiegare la sensazione... Il restauratore mi spiega che i romani sapevano calcolare e sfruttare le pendenze al millimetro e che sì, l'acqua che scaturisce da lì era raccolta e incanalata per servire Santa Maria e anche Vendri. E io so che sceglievano con estrema precisione i luoghi dove costruire. Dentro di me esulto: ci sono! Sia il coordinatore, sia il restauratore sono stati gentili, generosi e disponibili. Il coordinatore mi ha spiegato ogni cosa e mi ha permesso di scattare alcune fotografie col cellulare, solo nella cella che è già stata terminata, le cui immagini sono già circolate, e giustamente non in quella in restauro. I dipinti che ho visto, di epoca paleocristiana, sono di una bellezza commovente. La vividezza dei tratti dei visi, i colori, i dettagli dei gioielli e degli abbigliamenti, la costruzione del gioco di sguardi tra una scena e l'altra sulle pareti, le stelle a otto punte del cielo sulla cupoletta... non si possono spiegare. Ma io ne vorrei ancora, di spiegazioni. “Ma se tutta questa parte è paleocristiana, qual era il punto dove era situato il ninfeo, esattamente?” chiedo. Mi mostra un cunicolo, buio e stretto, che dirige all'origine della sorgente. “È una passeggiata di 85 metri al buio, perchè non sapevo che saresti venuta e non ho portato la pila,” (e io ho la pila nel cellulare, ma non la so usare...) “in fondo ci si deve chinare, se non hai paura e non soffri di claustrofobia ci possiamo andare...” Lui si mette all'ingresso: mi ci porterebbe e il suo atteggiamento fisico è esattamente opposto alle sue parole, nel senso che con le parole sembra dissuadermi ma con il corpo si sta già avviando dentro e mi invita. Io tentenno. No, non ho paura. Nè degli ambienti chiusi e nemmeno del buio, inoltre quella situazione assomiglia a uno dei miei sogni ricorrenti. Eppure mento e dico che soffro di claustrofobia. No che non ho paura. Loro pensano di sì, che sia quello, e io glielo lascio credere, ma non è così. É che so di essere al cospetto di qualcosa di sacro che mi ha già detto “sì”, mi ha già dato il suo permesso di accostarmi, e per rispetto non voglio chiedere di più. “Mi faccia solo entrare all'imbocco, per annusare un po'” gli chiedo. Lui si sposta e mi fa passare. Di fronte all'imbocco del tunnel, chiudo un momento gli occhi e respiro. La sensazione precisa non la saprei descrivere, davvero. Ma mi sento accolta, inoltre so che posso tornare. È come se il numen “volesse”, mi avesse dato il permesso.

Quando usciamo da quella fresca oscurità nella luce del piazzale, il coordinatore mi indica con la mano la contrada dove vive, proprio dietro la chiesa, Contrada Giusti. “Giusti?” dico io “Per caso... Provolo Giusti? Quello dell'Angiolina?” Lui mi sorride, tutto contento. E mi dice che la riedizione di quel libro, scritto da Caliari nell'800, l'ha curata lui.

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LA CITTA' DI DIO

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1 guardai alla mia sinistra e vidi un immenso deserto, una grande immensa città fatta di sabbia e ossa coi tetti di stelle marine ormai morte. Vi dimorava, 2 vi aleggiava una scarna armonia, una simmetria scheletrica ed erano infatti, quelle, mura di cenere e scheletri di corallo e foglie secche 3 arido, come bruciato e bruciante, uscito dalla bocca di un drago e, del bruciante, come se vi fosse rimasto solo l'amaro sapore 4 e non c'era forza, né essenza, se non l'essenza del dolore, e non c'era amore, e piansi di tristezza e compassione per tutto quel male. E quando le mie lacrime caddero, 5 guardai alla mia destra e vidi sorgere dalle sabbie del tempo una foresta, piena di alberi immensi di tutti i tipi, e fiori che sembravano lingue di fuoco sul vento e uccelli dai colori meravigliosi che si alzavano liberi sopra le cime più vergini, e leoni, e nei laghi tutti i pesci e ogni forma di animale bellezza e meraviglia. Poi entrai, feci un altro passo, 6 e lì sì, c'era tutto l'amore che avevo sempre cercato e seppi che da sempre, da prima del tempo, attraverso le lacrime e i miei occhi, tutta quella meraviglia era dentro di me. 7 entrai nella foresta e subito seppi che era sacra. Posai i miei piedi sul suolo suo ubertoso e verde, e ad ogni passo, poiché ero l'estate, i fiori si aprivano di più e più scuri diventavano e ogni creatura vivente volgeva il suo sguardo a me, 8 donandomi sorrisi, e fu così che io creai il giardino della vita nella città di dio 9 e volli in esso piante da frutto e fiori ovunque per nutrirmi e celebrare i miei capelli 10 e quando interrogai gli esseri che vi abitavano non uno, non uno di loro rimase muto a fissarmi e tutti risposero alle mie domande riconoscendo in me la Signora e i loro sguardi adoranti posati su di me mi dissero amore e devozione e dell'amore degli dei per me e io me ne compiacqui. 11 Colsi i fiori delle piante amorevoli e rosa e li intrecciai come un incanto e li posi sul mio capo e anche le farfalle, mie creature vennero a succhiarne il nettare 12 Colsi i frutti e non ve ne erano di proibiti giacché ovunque posassi lo sguardo si offrivano a me intensi e generosi desiderosi di dissetarmi e nutrirmi e ogni frutto come dolcissimo nutrimento 13 a lungo procedetti in questo luogo sacro nella città di dio 14 e conobbi il vulcano e il freddo era sconfitto e conobbi e interrogai il tuono e la paura era sconfitta 15 e il mare e la tristezza era sconfitta e il canneto e la solitudine era sconfitta 16 e il serpente e la malattia era sconfitta 17 e la notte quando scese senza nessun timore la mia dimora mi accolse e posai la testa contro la sua corteccia e mi addormentai 18 e la morte la morte era sconfitta.

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