Barbara Polettini
Jongleurs, matti, maghi e sciamani
Un libro di Starobinski è posato sul tavolo davanti a me. Sulla copertina, la riproduzione di “Au Lapin Agile” di Picasso, accanto ad un commento che attira la mia attenzione: “Si è riconosciuto il viso di Picasso. Ma è anche Arlecchino. Perché l’artista indossa il bicorno e l’abito a losanghe? Quale dignità o indegnità si auto attribuisce? L’arte del nostro secolo è dunque legata alla derisione?”(1) Certo, e non solo quella del nostro secolo: mi viene spontaneo pensare ad una delle mie figure preferite della letteratura medievale francese, il jongleur, giullare, che con capriole, scherzi e giochi di parole scatena e induce al suo passaggio un’eco di meraviglia, sconcerto e risate. Chi è il giullare? Che cosa fa? Che archetipo o che archetipi incarna, e quali sono gli effetti della sua attività e della sua presenza nel mondo? E, soprattutto, qual è il risultato della sua opera? Faral lo definisce un essere “multiplo”: musicista, poeta, attore, saltimbanco, vagabondo errante (da “errare”, nel senso di “vagare senza meta”, o nel senso di “colui che erra”, cioè che “è sulla strada errata”… in relazione forse alla morale del jongleur, in particolare dal punto di vista della chiesa cattolica, come si vedrà più oltre). È, inoltre, suonatore di viella, ciarlatano, autore di “jeux” (giochi, ma anche scherzi), acrobata e soprattutto “bateleur”, giocoliere. Si è ipotizzato che i jongleurs discendessero dai bardi, i poeti cantori delle tribù celtiche, oppure da antichi cantori germanici, e sono stati suggeriti collegamenti con gli scopas franchi, uomini d’arme che componevano e, in seguito, cantavano lodi epiche per ricordare e commemorare i compagni di guerra e le loro azioni eroiche. Secondo Faral queste relazioni sono inconsistenti ed egli suggerisce un collegamento d’altro tipo: i jongleurs sarebbero gli eredi degli antichi mimi, istrioni, taumaturghi, prestigiatori e danzatori provenienti dalla Magna Grecia, diffusisi nel mondo romano e spostatisi sempre più a nord, fino a raggiungere e mescolarsi ai popoli barbari. A sostegno e conferma di questa ipotesi, egli fa riferimento ai termini linguistici usati e cita le definizioni che, dei jongleurs, diedero gli uomini di chiesa loro contemporanei. Guy d’Amiens, ad esempio, vescovo di Amiens dal 1058 al 1075 circa, definisce il giullare Taillefer “istrio” e “mimo”. In seguito, il nome “mimo” fu sostituito da “joculares” e da “joculatores”, da cui “giullari” e “jongleurs” in francese. Le parole “joculares” e “joculatores” indicano la principale attività dei jongleurs, che consisteva nel giocare, fare scherzi e divertire/divertirsi. Col tempo, essi si diffusero praticamente in tutta Europa, sia nei paesi di lingua romanza che germanica, per quanto conoscano la loro età d’oro proprio nella Francia del Medio Evo. I jongleurs furono severamente ostacolati dalla Chiesa cattolica. Il concilio di Tours, nell’813 d.C., proibiva ai chierici la visione degli spettacoli profani degli istrioni e Agoberto, vescovo di Lione, nell’836 inveiva contro i cristiani che davano loro rifugio e aiuto, mentre i poveri della Chiesa morivano di fame. Anche Sant’Agostino è dello stesso avviso e afferma che accogliere istrioni, mimi e danzatori equivale ad accogliere schiere di demoni. Diatribe e invettive si moltiplicano nel corso degli anni e l’atteggiamento della Chiesa nei loro confronti si inasprisce: nel 906, i canoni anglosassoni di Edgar vietano ai preti di avere contatti con i buffoni, chiamati “sottoposti del diavolo”, “figli del maligno”, “nemici di Dio”; nell’XI° secolo in un canone di Abbon di Fleury si afferma che è compito della giustizia reale negare loro la possibilità di sopravvivenza e, nel XII° secolo, Onorio d’Autun immagina questo scambio di battute nel corso di un dialogo tra un maestro e il suo discepolo: “Hanno qualche speranza i jongleurs?” “Nessuna. In fondo alla loro anima, essi sono ministri di Satana. Si dice di loro che non hanno conosciuto Dio… e Dio riderà di chi ride” (2) Si deve rifiutare loro il sacramento della comunione, l’elemosina, l’aiuto di qualsiasi tipo e, in definitiva, la possibilità di far parte della comunità. In un’epoca in cui essere “fuori dalla comunità”, cioè “scomunicati”, equivaleva nel concreto ad una condanna a morte. Ciononostante, essi si affermano e diventano di moda all’epoca delle nozze tra Roberto il Pio e Costanza d’Aquitania (secolo XI); la nobildonna porta infatti a corte un seguito di personaggi provenienti dalle terre del sud che, se non erano tutti istrioni, avevano comunque parecchie caratteristiche simili, sia nel comportamento che nell’aspetto fisico: essi trascuravano l’arte della guerra e il virtuoso stile di vita di Burgundi e Franchi, vivendo nella mollezza e licenziosità; portavano i capelli tagliati a mezza testa, si radevano alla maniera degli istrioni e indossavano abiti e calzature indecenti e strane. Qual è il motivo di tanto accanimento da parte della Chiesa? Partiamo dalla ripartizione che dei jongleurs fa Thomas Cabham, chierico inglese, probabilmente verso il XIII° secolo. Egli distingue tre categorie: nella prima rientrano coloro che eseguono gesti e danze oscene, che si spogliano, indossano maschere e si occupano di pratiche magiche. Questi sono, senza ombra di dubbio, da condannare. Nella seconda rientrano coloro che, essendo vagabondi e seguendo le corti dei più potenti, lusingano questi e diffamano gli altri. Essi pure sono da condannare. Nella terza categoria rientrano gli istrioni musici: qui si devono distinguere coloro che frequentano taverne e luoghi di perdizione e cantano di cose folli e coloro che invece si dedicano alla celebrazione di cavalieri e santi. Secondo Cabham, solo questi ultimi sono da tollerare. Ecco la ragione dell’avversione: la Chiesa difende la purezza dei costumi, quindi non ama il turbamento scatenato nelle coscienze da feste, canti, danze e giochi. Il jongleur è immorale nel senso più esteso del termine. Immorale è la sua musica lasciva, che porta i corpi a dimenarsi senza ritegno; immorali sono gli scoppi di risa intemperanti suscitati dalle sue battute e dai suoi gesti. Anzi, è più che immorale: è anti-morale. Sentiamo dalla voce di uno di loro qual era lo stile di vita che prediligevano: “La volontà di Venere è dolce da realizzare (…) lo spirito è una lampada la cui fiamma va nutrita con il vino (…) io, non sono mai riuscito a scrivere una sola riga, a digiuno. A digiuno, non valgo nulla. Il digiuno e la sete, li temo come la morte, io.” (3). La taverna è senza dubbio uno dei luoghi di riferimento principali nella sua vita: “Ti sei consumato, tra la taverna e il bordello” (4). Ma il jongleur è una creatura che “odora di zolfo” perché, oltre a creare confusione sui piazzali delle chiese, distogliendo il buon cristiano dall’altare, viola le leggi con la stessa leggerezza con cui esegue le sue capriole. Come le sue acrobazie gli permettono di sfidare la gravità, facendolo di volta in volta saltare, capovolgere, danzare sospeso su un filo, e le leggi della materia, facendogli divorare e poi sputare il fuoco, così egli stravolge lo status quo. Fa liberamente ciò che nessuno osa fare, non rispettando le autorità, fingendosi pazzo, rompendo gli schemi, creando deliberatamente il caos con la frenesia e allegria dissacranti che lo caratterizzano. Non dimentichiamo che il giullare di corte è l’unico che si può permettere di motteggiare lo stesso re. E se non bastasse, il jongleur canta e si esibisce in cambio di oro, è un vagabondo e vive alla ventura. Il jongleur, concentrato di vizio e inganno, va bandito. È al limite della liceità: come vagabondi, i jongleurs sostano sui sagrati e nei porticati antistanti le chiese. La ferocia delle proscrizioni con cui vengono combattuti ne testimonia, paradossalmente, la forza e la persistenza: il fatto è che vivendo sul confine tra l’interno e l’esterno delle chiese, essi potevano, da un momento all’altro, “passare oltre” e penetrare all’interno. Non a caso infatti, spesso, essi prendono parte all’organizzazione degli spettacoli sacri nei giorni di festa: se, da un lato, questa commistione tra sacro e profano permette un minimo controllo su di loro e tenta di redimerli, dall’altra dà loro la possibilità di entrare nel cuore del luogo di culto. Pierre le Chantre afferma che tutti gli esseri viventi sulla terra hanno una funzione ben precisa, tranne i jongleurs, e questo li rende esecrabili. Sostanzialmente si tratta della paura di ciò che non si conosce e non si può definire. Il jongleur non rientra in nessuna categoria della rigida e schematica società medievale. Non è un orator, non è un bellator e non è nemmeno un laborator… è un outsider. Quindi va scomunicato, cioè “allontanato dalla comunità”. Ma più di ogni altra cosa, il jongleur insinua, con il suo esempio e con le sue risate, che la libertà è possibile. Questo, è il reale pericolo che rappresenta. Al di là del terrore e dell’indignazione che riescono a scaturire le loro azioni dissacranti, che cosa devono effettivamente saper fare i jongleurs? “Sachez trover” è la risposta di Giraut de Calanson al suo jongleur Fadet (5). La frase riassume l’opera. “Trover”, “trovar” o “trobar” significa poetare, inventare, comporre musica o versi, e si riferisce alla perizia nell’uso della parola con valore poetico. È la capacità di manipolare la lingua, abilità in certo qual modo analoga alla perizia esibita dai giocolieri con le mani e gli oggetti del loro gioco. Una perizia dalle sfumature magiche, trasformative, alchemiche ed ermetiche. “Trobar” si riferisce inizialmente alla tecnica dei jongleurs d’Occitania, che in seguito si diffuse in tutta Europa. Si distinguevano due livelli di “trobar”: il “trobar leu” o poetare facile, che proponeva un modo di far poesia comprensibile a tutti, e il “trobar clus” o poetare chiuso, nel senso di oscuro, ermetico e di difficile comprensione, che richiedeva maggiore arguzia, finezza d’intelletto e, ovviamente, esperienza. L’arte del trobar è più strettamente associata ai trovatori, o trovieri, che rispetto ai jongleurs godevano di una differente considerazione: se i trovatori erano gli autori dei testi poetici, i jongleurs ne erano gli esecutori. Ma questa distinzione lascia il tempo che trova, giacché moltissimi jongleurs erano anche autori. Quindi, lungi dall’essere semplici “pagliacci” di corte, i jongleurs si rivelano densi e profondi ed esprimono una creatività esplosiva come le risate da loro scatenate, una creatività tutta piena del potere fecondante della parola. Il jongleur ride di tutto: ride di se stesso, del re, del prete, del papa, della morte, anzi: ride con la morte, per questo la vince. Se si volesse associargli un profilo psicologico, si potrebbe pensare ad un “borderline”, in analogia con il suo vivere “al limite”, sulla soglia della regolarità e della liceità, con la sua emozionalità esagerata, con l’instabilità dovuta all’essere fuori dagli schemi e all’essere sempre in movimento come argento vivo, e con la sua imprevedibilità. Oppure, si potrebbe associarlo ad un disturbo istrionico di personalità, per il suo desiderio di essere costantemente al centro dell’attenzione e per i frequenti riferimenti alla sfera dell’eros. Il suo vestiario è il riflesso del suo porsi oltre la normalità e oltre tutte le categorie. In un’epoca, il Medio Evo, in cui in assenza di documenti di identità, l’abito fa il monaco, i suoi abiti la dicono lunga su di lui. Osservando alcune miniature di giullari, due particolari balzano all’occhio: gli abiti bicolore sgargianti e i copricapi bizzarri. È stata una conseguenza naturale di questa osservazione associare i jongleurs a due figure degli Arcani maggiori dei Tarocchi: il Matto e il Bagatto, che in francese si chiama proprio “Bateleur” (si tratta di una associazione archetipica e simbolica, non storica o cronologica). Nei Tarocchi di Marsiglia il Matto indossa l’abito bicolore e il copricapo bizzarro simili a quelli del jongleur, inoltre scarpe vistosamente rosse e campanelli, che richiamano le calzature indecenti e strambe citate da Faral. Ma è soprattutto il dettaglio del cane che azzanna il Matto alle gambe ad evocare in me l’immagine della vita errabonda dei jongleurs, cacciati dalla chiesa, ai margini della società, sempre con il fardello in spalla per ripartire e ricominciare tutto da capo. Il jongleur e il Matto sono due senza terra, due scomunicati nel senso cui alludevo prima, di “fuori dalla comunità”. Cito Jodorowsky: “Il Matto rappresenta l’eterno viaggiatore che cammina per il mondo senza legami e senza nazionalità (…) una creatura (…) al di là di ogni divieto… una forza liberatoria incommensurabile”(6). Più oltre, Jodorowsky aggiunge: “Il Matto rievoca un forte impulso di energia. (…) Rappresenta allora una liberazione, una fuga (materiale, emozionale, intellettuale o sessuale) (…) rappresenta la follia o la leggerezza. E, naturalmente, un pellegrinaggio, un viaggio, una forza che si muove” (7). La stessa forza della risata scatenata dal giullare. Lo stesso effetto provocato dalla sua opera di rovesciamento degli schemi sociali. Molto interessanti le parole chiave associate a questo Arcano, tra cui “irrazionale” e “caos”, così come le interpretazioni tradizionali indicate da Jodorowsky: follia, vagabondaggio, gioia di vivere, buffone, saltimbanco fra le altre. Riguardo al Bagatto, o Bateleur, anche questo indossa vesti bicolore dalle tinte sgargianti, calzature di colore vistoso e uno stranissimo cappello molto largo. Ma al di là dell’evidenza fisica, il legame con il jongleur è a mio avviso, da vedersi più nell’”opera” del personaggio, che è essenzialmente un “trasformatore”. Così come il jongleur che trasforma la realtà con l’illusione e la magia: Taillefer, ad esempio, nel Carmen de Hastingae Proelio (il canto della battaglia di Hastings) chiede al suo capitano il permesso di aprire la battaglia contro gli inglesi. Si getta in campo recitando la Chanson de Roland e al contempo, esegue giochi di abilità e prestigio con lancia e spada: la sua esibizione meraviglia e distrae gli inglesi, che credono che egli abbia poteri sovrannaturali, e gli consente di ucciderne alcuni dando così inizio al combattimento. Nelle parole di Jodorowsky, il Mago indica che qualcosa è possibile e infatti, nelle parole chiave l’autore cita, fra l’altro, astuzia, abilità, imbroglione, mentre nelle interpretazioni tradizionali ricorda il prestigiatore, il truffatore e il giocatore: tutti termini ugualmente coerenti con il mondo e la vita del jongleur. Ma è possibile un ulteriore collegamento. I temi della leggerezza, dello scherzo e dell’inganno evocano uno tra i più divertenti e simpatici dei dell’Olimpo greco, protettore di commercianti, ladri e viaggiatori, nonché dio della comunicazione: Ermes. J. Shinoda Bolen afferma: “Ermes come dio, come archetipo e come uomo, personifica la rapidità di movimento, l’agilità della mente e la facilità di parole”(8). Se fosse vissuto alla corte di Costanza d’Aquitania, per la sua facilità a comunicare ma anche, al contrario, per l’oscurità e ingannevolezza di alcuni suoi contenuti, si sarebbe certamente potuto dire di lui che sapeva “trobar”. Oltre che dei numeri e dell’alfabeto egli è, fra l’altro, il presunto inventore della lira; ebbe l’idea di costruirla vedendo una tartaruga: la prese e la fece a pezzi, ne rovesciò il guscio e vi attaccò le corde. Ed ecco il legame con la musica. Anche Ermes indossa un grande cappello da viaggio, a cui spesso erano aggiunte due ali, come ai piedi, a sottolinearne la velocità sia di spostamento che di pensiero. Inoltre egli porta con sé un bastone a cui sono avvolti due nastri o serpenti bianchi. È forse lo stesso bastone del Matto, del Bagatto e del jongleur? Tra l’altro, non si tratta di un semplice sostegno per il viaggio ma di un vero e proprio strumento magico, che in Alchimia diverrà il simbolo del Mercurio, elemento trasformativo e spirito nascosto nella materia. Forse perché il bastone è legno (quindi appartiene al mondo vegetale, vivo), contiene in sé la possibilità di germogliare e crescere e di conseguenza, la capacità di trasformarsi e di liberare altra creatività. Uno degli aspetti più intriganti di Ermes è, a mio avviso, il suo essere viaggiatore. Egli non si limita ad attraversare gli spazi in direzione orizzontale, attraverso le regioni, e verticale, grazie alle ali che gli permettono di volare e di spostarsi da terra a cielo. Viaggia anche attraverso il tempo e collega territori che appartengono a epoche diverse, come il mondo dei vivi e quello dei morti. Non a caso, gioca un ruolo di primo piano nel ritorno di Persefone dall’Ade alla terra dei vivi: è lui che la riaccompagna di qua, permettendo simbolicamente il riemergere della primavera sulla terra. Ermes è un po’ come i jongleurs, che viaggiavano continuamente da una corte all’altra, quando non avevano la fortuna di essere ospiti fissi. E l’uno e gli altri condividono anche alcuni tratti dello sciamanesimo, come l’asocialità, il vivere al di fuori delle leggi e della morale prestabilita, un andare e venire senza regole e senza possibilità di previsione; l’apparire improvviso, sorprendente e inaspettato; la conoscenza dell’arte della musica, dell’illusione e della magia che, se nello sciamano è missione e cura, nel jongleur serve a creare spettacolo. Come i jongleurs, gli sciamani sono figure di confine rispetto alle società in cui il loro ruolo è presente e diffuso: essi non ne fanno parte perché non sono classificabili in nessuna categoria; vanno e vengono; arrivano all’improvviso e altrettanto improvvisamente ripartono, ma sempre in occasioni particolari, in concomitanza con eventi precisi o ricorrenze sacre. La loro stessa dimora, quando c’è, si pone in una posizione di isolamento rispetto al villaggio: questo perché anche lo sciamano è “fuori” dalla comunità. Gli sciamani scoprono di essere tali molto spesso o attraverso una malattia grave oppure attraverso la follia. È questo il passaggio che li porta a scoprire di essere “diversi” e di poter comunicare con l’”altro mondo”. Anche il suo vestiario presenta caratteri simili a quello del jongleur: bizzarro, con pendagli e oggetti curiosi e sonagli, con valore e funzione magica e rituale. Lo sciamano spesso indossa un copricapo appariscente, magari ricavato da parti di animali; come Ermes e come il jongleur, porta con sé la musica, di cui si serve nelle sue operazioni di guarigione. La musica, come la risata, crea un “ritmo” nuovo rispetto a quello ordinario; di conseguenza crea un tempo nuovo e, forse, anche la possibilità di riscrivere gli eventi in maniera diversa rispetto a come erano, ricostruendo l’armonia e l’equilibrio e permettendo la guarigione… Inoltre, lo sciamano porta con sé un bastone che richiama il caduceo di Ermes, il bastone del Matto e la bacchetta del Bagatto. Lo scettro del jongleur e il bastone dello sciamano in realtà, sono “antiscettri”, nel senso che sono il simbolo del vero potere, che si oppone a quello precostituito: servono sia a ricordare la derisione delle auctoritates, sia ad evocare l’immensa e inarrestabile potenza creatrice, vera e propria fonte di potere rispetto alla sterilità dell’ordine stabilito. Si tratta di simboli fallici, legati alla creatività, alla libertà e alla risata. Per gli sciamani, la capacità di ridere e di ridere di sé è un aspetto importante del percorso sacro e della ricerca dell’essenza della realtà. Quando si ride, crolla la rigidità. Il corpo si lascia andare e si riscalda; la pancia trema e si agita e la bocca si spalanca, il viso si deforma e il respiro si scombussola, si arrossisce, ci si affanna e può capitare anche di piangere. Soprattutto la pancia, sede della creatività, si dimena e trema. Ecco perché la risata, e chi fa ridere, sono pericolosi: la risata distrugge le maschere dell’ego che indossiamo di solito per relazionarci nel quotidiano, i ruoli in cui ci identifichiamo, permettendo di far emergere l’autenticità che sta dietro. L’essenza, con cui sciamani e jongleurs sono in relazione costante. Del resto, come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il jongleur, come poeta, manipola il Verbo? Mi piace ricordare anche un’ altra caratteristica insolita dello sciamano, che si ricollega all’andar contro le regole e nella direzione del disordine e del caos dei personaggi fin’ora visti: la sua per niente chiara identità sessuale. Si suppone che lo sciamano sia un maschio, ma potrebbe anche essere una femmina. Spesso indossa abiti femminili. In Jacuzia, una zona della Siberia dove lo sciamanesimo è molto radicato e sopravvive tutt’ora, fa parte del percorso di formazione dello sciamano il fatto di imparare a vivere come le donne: per questo motivo egli deve non solo indossare abiti femminili, ma anche prendere marito, cioè scegliere un compagno che gli consenta di vivere come una donna. Uno dei più grandi indovini dell’antichità, Tiresia, nel corso delle sue varie incarnazioni era stato una donna e questa era, probabilmente, la ragione della sua sviluppatissima capacità di “vedere oltre”. Come mai? Perché è nella costituzione fisica della donna la capacità di “rompere le regole”, anche le leggi fisiche: si pensi alla gravidanza, che rende possibile la venuta degli esseri in questo mondo. Il corpo della donna è naturalmente sciamanico perché è il mezzo che rende possibile alle anime il venire al mondo e l’incarnarsi. Questo, gli sciamani lo sanno bene e perciò evocano aspetti ed elementi tipicamente femminili, infrangendo anche l’ultima barriera sociale, l’identità di genere. Tutti i personaggi e gli archetipi considerati sono accomunati dal tema della follia. E tutti, pur muovendo sul filo della follia, riescono a rimanere in equilibrio. Starobinsky sostiene che il funambolista è, come lo sciamano, in contatto con l’essenza della realtà e che entrambi dialogano con la vita e i suoi principi, suggerendo un legame tra i saltimbanchi (quindi anche i jongleurs) e il sacro. Egli fa notare che l’acrobazia antica è legata molto spesso alle cerimonie funebri e che i saltimbanchi detengono la parola d’ordine che permette l’accesso all’aldilà. Proprio come accade, aggiungo io, per Ermes e per gli sciamani. Mi chiedo a questo punto se esista una relazione tra le due parole “funambolista” e “funebre”, visto che entrambe presentano lo stesso tratto: “fun-“… Del resto, la relazione tra i mimi o istriones e il mondo della magia e del sacro era stata evidenziata da Faral. Quali capacità sfruttano questi personaggi per non perdere la testa e impazzire, per continuare a spostarsi da un piano all’altro riuscendo sempre a fare ritorno? Su cosa si posano gli occhi di jongleurs, funambolisti e sciamani (e molto probabilmente anche di Ermes…) per non perdere il loro riferimento, per non perdersi? Forse, il segreto sta nella capacità di essere continuamente in modalità “lascio andare”: se non si è aggrappati a nulla, nulla si può perdere… O forse, si tratta di cercare un centro diverso dai soliti, una radice inconsueta, che presuppone un cambiamento del proprio punto di vista e della propria visione: ancorarsi ad un riferimento interno a se stessi e non esterno, come può essere il baricentro per gli acrobati… Restare morbidi, flessibili, e radicarsi e centrarsi profondamente a se, è quanto è emerso qualche tempo fa, quando ho avuto il piacere di parlare con Vassago, fuocoliere e artista di strada. La mia curiosità riguardava il rapporto tra una vita inesorabilmente errabonda e la capacità di trovare comunque, in qualche modo, la propria radice. Gli ho chiesto a bruciapelo: “Sull’equilibrio e sulla strada che mi dici?” La sua risposta è stata: “L’uno serve a stare nell’altra. Il primo si cerca. La seconda ti trova”. Deve sentirsi così, l'acrobata, sulla corda tesa nel vuoto. Gli ho detto anche: “Tu sei abituato al fuoco. Lo mangi, lo divori e lo risputi. Che sapore ha, il fuoco?” e lui: “La domanda giusta è “Che sapore dà il fuoco”. Un reale, concreto e definitivo cambio di prospettiva. Evidentemente.
immagine di Cinzia Loren gentilmente concessa da Vassago
Note
1) Jean Starobinski, Portrait de l’artiste en saltimbanque, Editions d’Art Albert Skira, Genève, 1970
2) Edmond Faral, Les jongleurs au Moyen Age, Champion, Paris, 1971, p. 26-27 traduzione mia
3)Ivi, p.39, traduzione mia
4) Ivi, p148, traduzione mia
5) Ivi, p.77
6) Alejandro Jodorowsky, Marianne Costa, La via dei Tarocchi, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 133
7) Ivi, p. 135
8) Jean S. Bolen, Gli dei dentro l’uomo, Una nuova psicologia maschile, Roma, Astrolabio, 1994, p. 167
Bibliografia :
Jean S. Bolen, Gli dei dentro l’uomo, Una nuova psicologia maschile, Roma, Astrolabio, 1994
EdmondFaral, Les jongleurs au Moyen Age, Champion, Paris, 1971
Alejandro Jodorowsky, Marianne Costa, La via deiTarocchi, Feltrinelli, Milano, 2009 Jean Starobinski, Portrait de l’artiste en saltimbanque, Editions d’Art Albert Skira, Genève, 1970
Lia Zola, Il commercio degli spiriti, Aracne, Roma, 2008















