Barbara Polettini
“Vedi questa donna?
Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato.”
Luca, 7,44-47
Ho perduto il conto degli anni delle mie carte. Non so più se sono con me da secoli, o da millenni. La loro superficie è sbiadita, consunta dalle centinaia di tocchi delle mani che le hanno mescolate, alzate, girate e interrogate. Le figure sono quasi scomparse. Coloro che si rivolgono a me non capiscono come io possa interpretarle e comprenderle; a loro, le immagini appaiono indistinte e sfocate, a malapena riescono a leggere frammenti di un numero. Per tutti è così, ma non per me. Io vedo tutto.
Forse ti sembrerà di avere già ascoltato le mie parole e forse è davvero così, perchè magari ci siamo già incontrati da qualche parte, in qualche tempo, chi lo sa. Magari, tu non mi hai dimenticata.
Non ricordo più il mio nome, ma so di essere nata a Migdal Nunia, il villaggio dalla Torre dei Pesci sul mare di Galilea, vicino a Tiberiade, la città impura.
Migdal, la mia terra, era bellissima, ancor più dell’Eden. Fertile e ricca, coperta di viti e ulivi, sdraiata sulle colline come una bella donna che aspetta il bacio del sole e le carezze impertinenti del vento. La amo ancora tanto, nonostante non vi faccia ritorno da molti anni.
Credo che la famiglia di mia madre, ricchissima, fosse proprietaria dell’intero villaggio. Il nostro palazzo era sulla cima della collina più alta e da lì si vedeva la vallata. La mia stanza di bambina aveva una grande porta e, quando mi svegliavo, gli occhi azzurri del lago erano la prima cosa su cui i miei occhi si posavano. A volte, appena velato da una leggera foschia; un po’ di più in estate, quando faceva molto caldo. Da bambina sognavo spesso i pirati e quando a giorno pieno mi svegliavo e aprivo gli occhi, guardavo sul lago sperando di vedere le vele rosse delle navi straniere. Le cicale cantavano per tutta l’estate e l’inverno era mite. Il nostro palazzo guardava verso Tiberiade, la città che grazie alla sua corruzione mi ha arricchita più di ogni altra terra. I saggi dicevano che da là proveniva un contagio delle menti e dei costumi ed esortavano la gente per bene ad allontanarsene. Ma anche i saggi sono uomini.
“A presto”: queste le parole con cui io li salutavo ogni volta che li incrociavo sulla mia strada e loro voltavano la testa dall’altra parte. Si voltavano per la vergogna di fronte alla Verità, non per disprezzo. Così occupati a difendersi dagli dei stranieri, non capivano che il male è dentro, per quanto si voglia respingerlo fuori di noi oltre un immaginario e fragilissimo cancello. Si affannavano, dal bastione sicuro della grande scalinata del tempio; inveivano e bestemmiavano gli dei stranieri, lanciavano anatemi e maledizioni contro gli dei sconosciuti, gli dei degli altri, come se fossero forieri di chissà quale disgrazia. E io sorridevo. Gli dei sono soltanto statue. Ciò che si deve temere, ciò che davvero è terribile, è ciò che si muove dentro nella parte più nascosta dei nostri visceri. Hai mai odorato le interiora del pesce dopo che le hai tenute in un otre chiuso al buio per qualche giorno? Fetore inverecondo...
Mia madre, da donna intelligente quale era, aveva appreso tutto quello che c’era da apprendere sugli dei da mio padre. Per lei, egli era il suo unico dio. Lasciava che la servitù facesse sacrifici alle statue che preferiva. Il cibo che rimaneva sugli altari, lo prendevano di notte le bestie selvatiche.
Ciò che è diverso fa paura, perché è distinto, separato da noi, e la separazione fa male e genera altra paura. E la paura genera altro dolore. I Saggi moderni raccontano che la stessa creazione contenga al suo interno il seme del dolore, perché interpretano le Scritture insinuando che il Signore abbia creato il mondo separando le cose fra loro, dividendole. Ma dovresti sentire quanto grida di gioia il corpo e il cuore dei saggi di tutti i templi, quando finalmente di notte annullano la separazione congiungendosi a me. E’ allora che la Verità viene a galla. Dio era innamorato e godè nel creare il mondo e tutto venne alla luce in un possente ed irresistibile orgasmo. È questa la Verità. È questo che mi insegnano i saggi di notte, quando avvinti a me ed esausti di piacere, lasciano sfuggire dalle loro labbra, fra i gemiti di soddisfazione, ogni più intimo e proibito secretum.
Splendida, maestosa e perfetta come un albero sefirotico, mi hanno sempre chiamata, presenza di Dio, azione di Dio, puro fuoco.
Io ridevo allora come rido oggi. Se il loro dio li avesse sentiti, li avrebbe fulminati prima ancora che avessero la possibilità di uscire da me. Loro bestemmiavano il nome di Dio in realtà, congiungendosi a me e chiamandomi con gli epiteti destinati a lui. Ma questo avveniva solo di notte, e il regno del buio non è il regno del padre. Di giorno, paradossalmente, rifuggivano lo splendore della mia bellezza e si ritiravano al sicuro, nella penombra del tempio, il posto che più di ogni altro avrebbe dovuto riverberare di purezza ed era, invece, ricettacolo dei più immondi maiali. Gli dei non stanno lassù, nel timpano di un palazzo. Gli dei sono in terra, nel corpo. Non possono vivere senza un corpo, per questo si incarnano e muoiono. E si incarnano perché vogliono conoscere l’amore.
L’arte dei Tarocchi mi fu insegnata da un Mago. In una notte di inizio inverno, con il cielo che splendeva di stelle mai viste, egli venne a bussare alla mia locanda insieme ad altri due compagni. L’orizzonte si era acceso di una calda tinta rosso-arancio simile al colore che si estrae dal murice, mentre loro si avvicinavano mollemente al villaggio, in groppa ai cammelli, inseguendo Lazwhard, la Stella che indicava “il ragazzo”. Faceva freddo quella sera, non riuscivo a scaldarmi. La mia locanda è sempre aperta a tutti i pellegrini, a tutti i passeggeri, ai viandanti, ai cercatori. A chi si mette in cerca di fede, di oro, di sogni. A nessuno chiudo la porta. Né il mio letto. Chi può mai sapere? A volte, sotto al mantello lacero di un mendicante può celarsi un dio.
Concedermi ad un uomo ogni volta diverso è un atto che perpetua il piacere. Quando inizia il rituale del corteggiamento, quando la voce del mio amante si abbassa, il suo sguardo si fa più intenso, il suo volto si avvicina di più al mio e lui comincia a spogliarmi, una perla dopo l’altra, un petalo dopo l’altro, come se fossi una rosa... e poi, quando finalmente sfioriamo la soglia del primo bacio, ecco che il tempo si ferma ed è come se fossimo risucchiati l’uno verso l’energia dell’altro e l’uno per l’altro diventiamo un abisso. In quel preciso istante tocco l’eternità. Mi coglie una vertigine. Come una vergine “Ecco” penso, “sta per baciarmi.”
Conosco i gesti che seguiranno. Ma non conosco ancora lui, lo lascio andare avanti e mi stupisco ogni volta, nell’assaggiare la sua lingua. Così, questo è il suo sapore? Questo è il suo modo di amare? E’ così, quest’uomo che non conosco? Mi scosto da lui, lo guardo stupita con occhi nuovi. Nelle sue pupille vedo me stessa sempre giovane; accarezzo la sua pelle con lo sguardo e mi sembra che riverberi d’oro; prendo un attimo il respiro e subito dopo ricominciamo. Voglio ancora gustare di lui. Solo a questo punto mi abbandono. Ed egli è già parte di me. “Lazhward”, mormoro, “un’altra stella nel mio cielo…”
I miei amanti sono stati tanti. Tanti quante le mani che hanno sfiorato le mie carte. Li ho amati tutti allo stesso modo. Tutti hanno contribuito a fare di me quella che sono.
Il piacere più grande sta nella conoscenza dell’altro. Non la conoscenza fine a se stessa, il cui esito è la presunzione di sapere già tutto, di non avere più nulla da imparare, una conferma alla nostra perizia ed infallibilità nell’arte della relazione. Neppure nella conoscenza volta a dominare chi ci sta di fronte, dominio il cui fine è una scarna gratificazione, a malapena nutrita dallo stupore e dall’invidia che destiamo nell’altro. Tutto questo è peccato. La conoscenza completa avviene attraverso l’esperienza sensuale del corpo e ha sede nel cuore. Coincide con l’amore. Non teme di essere condivisa perché è generosa, come un’amante perfetta.
Chiamavo Lazhward tutti i miei amanti, anche quelli più anziani. Chiamai così anche quel Mago e lui si stupì nel sentirmelo dire, non so perché. Mi sorrise. Tra tutti coloro che ho avuto, tra tutti coloro che mi hanno avuta, nessuno era bello come lui. Ricordo il suo abito di lino e seta, e un sontuoso turbante blu. Mi pare che avesse la pelle scura, o forse era soltanto la notte e i suoi denti erano bianchissimi sulle gengive color dell’uva. Ma non ho dubbi sul suo profumo. Era di sandalo e spezie pregiate, lo sento chiaramente come se fosse ancora sotto le mie labbra. Per ricompensarmi delle mie attenzioni, dopo l’amore prese dalla sua borsa un mazzo di Tarocchi e mi insegnò a leggerli. Mi insegnò la parola e il senso dei simboli dipinti su ogni carta. E quando venne l’alba tolse dal cofanetto che aveva portato con sé una manciata di grani di resine profumate, piccola parte di un dono destinato ad un grande re, e la gettò sul braciere; pronunciò parole in una lingua sconosciuta, parole che mi fecero tremare ed evocarono in me immagini sacre di ringraziamento e di preghiera; non appena il fumo bianco e fragrante si alzò nella stanza, lui lo soffiò verso di me sorridendo.
Nel tempo sono passati tutti da me, con i loro dubbi, le loro paure, le loro ossessioni e curiosità. In realtà, unica è la domanda che li accomuna: desiderano conoscere quale sorte li attende in amore. Aspirano ad un legame eterno, parlano di spirito e di anima gemella e non comprendono… Non comprendono che l’amore è nel corpo, e che al di fuori di questo non c’è altro che il fuoco del desiderio, che brucia spietato senza dare pace. Questo, è ciò che i preti chiamano inferno.
Poi se ne andò, lasciando in me il ricordo del suo profumo e il desiderio inestinguibile di ritrovarlo, magari anche solo in parte, sulla pelle degli altri.
Fino ad oggi, non l’ho ancora rivisto.