Barbara Polettini
“Nel linguaggio del cuore è depositata e sigillata l’autentica essenza dell’uomo.
”Negli occhi dello sciamano, Hernàn Huarache Mamani
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Ogni volta che mi si chiede di scrivere di una divinità, percorro due strade. La prima è quella dello sguardo: cerco immagini, foto, icone. Trascorro il tempo ad osservare i simboli, più rapidi, diretti e intensi di qualunque altra forma di comunicazione. La seconda è quella dell’osservazione di ciò che mi accade intorno durante la ricerca, perché ho notato che, quando inizio a studiare un dio, tutto sembra riecheggiarne. Tutto intorno, ogni cosa sembra pervasa, intrisa delle sue insegne, come se nominandolo, cercandolo, un dio e il suo mito si risvegliassero ed iniziassero a palpitare attraverso il quotidiano, come se non vedessero l’ora di riemergere da un sonno lungo tutta la storia. Forse è proprio vero che la mente vede quello che vuole vedere. O forse aveva ragione Baudelaire, quando diceva: “E’ un tempio la Natura, ove pilastri viventi a volte emanano parole
confuse; l’uomo la attraversa tra foreste di simboli dagli occhi familiari” (Baudelaire, Correspondances)
Anche stavolta è così. Pachamama non è una novità, per me. Anzi, è una vecchia amica.
Non appena digito il suo nome in rete, mi si spalanca il paradiso terrestre: pitture di donne meravigliose, gravide, spumeggianti di vita e di capacità creativa; donne incinte, con enormi pance colorate, azzurre, blu, arancio, folte capigliature lussureggianti come foreste tropicali, abiti cuciti e dipinti con piante, animali, stelle, sole, luna, isole verdi, montagne brune, nuvole e acque turchesi…
Il suo corpo è il mondo. La vita è il suo corpo.
Pachamama mostra donne-dee nell'espansione del loro potenziale, dove il potenziale coincide con la capacità di dare vita, con la creatività. Pachamama è creazione.
Al vederle, anch’io mi sento come se fossi incinta. Da alcuni giorni non riesco a dormire, così approfitto dell’elevata soglia di eccitazione per documentarmi e leggere: d’altronde, perché dormire quando la primavera è così vicina?
Pachamama è una divinità della cultura andina, venerata in Bolivia e in alcune zone nord dell’Argentina e del Cile. Il suo nome deriva dal quechua, la lingua tradizionale andina, in cui “mama” significa “terra” e “pacha” significa “universo”, o “tutto”,
Mito e tradizione di Pachamama si sono diffusi, da alcuni anni a questa parte in Europa, grazie al lavoro di Hernàn Huarache Mamani, scrittore peruviano e “curandero”, ossia sciamano, impegnato nella rivalutazione della cultura tradizionale della sua gente. Egli ha iniziato a scrivere e pubblicare testi inerenti la sua terra (“Curanderos delle Ande” è del 1985) e in seguito è passato a scrivere opere di narrativa, come “La profezia della curandera" del 2001, "La donna dalla coda d'argento" del 2005 e "La donna della luce" del 2007, che hanno riscosso grande successo di pubblico. Al di là del fascino suscitato dalle ambientazioni e dalle sue capacità narrative, Hernàn Huarache Mamani deve fortuna, successo e buona accoglienza al messaggio di cui i suoi scritti si fanno veicolo, scritti attraverso i quali diffonde le idee inerenti a Pachamama.
Osservandolo, sentendolo parlare in alcune interviste, sono colpita dalla sua semplicità: è chiaro ed inequivocabile come un bambino, e da lui traspare una grande umiltà; senza alcuna forma di orgoglio o superbia, e molto realisticamente, afferma che il nostro pianeta è solo un granello di sabbia nell’universo, che non esiste nessuna forma di vita superiore alle altre, che ogni essere, non solo umano, ma vivente, ha gli stessi diritti, perché Pachamama ugualmente a tutti ha concesso il diritto alla vita. Quanto è lontano, questo concetto, dalla nostra presunta superiorità su tutte le altre creature, mutuata chissà da quale maldestra interpretazione...
Mamani definisce “Pachamama” un concetto: ella è, ad un tempo, madre celestiale, madre dell’universo e madre terra; se ne fa portavoce per scongiurare i problemi che sovrastano il mondo, aggravandosi di anno in anno, in particolare l’inquinamento, non solo ambientale, ma anche mentale e spirituale: in una visione olistica della realtà e del mondo, tutto ciò che l’uomo fa alla terra si riflette su di lui, l’uomo e la terra su cui poggia i piedi sono una cosa sola. Ecco perché il corpo di Pachamama è fatto di isole, nuvole e montagne. Inquinare noi e inquinare la terra, è la stessa cosa.
Pachamama è un essere spirituale che ci ha posti in uno dei più bei luoghi del sistema solare, luogo che l’uomo civilizzato sta rovinando, distruggendo e contaminando a causa della sua devozione al dio denaro, al possesso, alla proprietà privata, che non sono situazioni naturali. Ma nella sua cosmologia si prevede il ritorno di una sorta di età dell’oro, il ritorno a un’epoca dove governavano antichi re mitici che garantivano pace e prosperità e che furono distrutti dai popoli guerrieri e tale ritorno è inevitabile perché in natura, la proprietà privata e il denaro non esistono.
Dal punto di vista religioso, Pachamama è un concetto di tolleranza: è necessario tollerare gli uni e gli altri, senza dividere nessuno, senza separare, senza escludere, perché gli esseri umani sono qui per vivere in armonia e per partecipare, a loro modo, al progetto di creazione. La donna, in particolare, ha dentro di sé un potere che la stessa Pachamama le ha donato perché lo utilizzi con amore. Per essere una vera donna, è necessario non avere paura ma essere libera e saggia e in particolare, occorre non essere un soggetto vittima di basse passioni, o di una sessualità egoista, possessiva, manipolatrice e repressiva.
Osservando le immagini che ho trovato, non posso non pensare alla Venere di Willendorf, una statuetta risalente a 26-25000 anni fa, raffigurante una donna poco caratterizzata nel volto, ma definita da una notevole corpulenza dei seni e del ventre, per questo motivo collegata a culti di fertilità (anche se su questa ipotesi le teorie continuano ad essere piuttosto discordanti). Molte rappresentazioni di Pachamama, anche moderne o di tendenza new age, mostrano una donna incinta e con grandi seni. Il legame tra le due dee è evidente: in nessuna delle due è significativa l’individualità: infatti il viso non è definito, non vediamo un’espressione, non notiamo il colore degli occhi, né nessun altro segno di emozioni eventualmente provate; ciò che passa immediatamente, semplicemente, è il senso di abbondanza.
Pachamama accovacciata nella posizione della partoriente, con un bambino incanalato nel canale del parto e con il viso così estremamente stilizzato mi ricorda anche le Sheila na Gig, le sculture medievali irlandesi che raffigurano una donna accovacciata nell’atto di divaricare una vulva ingigantita. Nonostante la crudezza (e oscenità, agli occhi di noi moderni) della loro posizione, le Sheila na Gig erano statuette poste a decorazione di piccole chiese, con la funzione di proteggere dalla morte e dal male, e, in generale, poste a custodia di ogni apertura o passaggio. Con tutta l’ostentazione di nudo e la provocazione sessuale a cui siamo sottoposti senza riserve ogni giorno, con l’esaltazione esasperata del sesso, che trasuda ovunque, al punto che questa continua stimolazione sembra essere uno dei fattori responsabili dell’abbassamento dell’età media del menarca nelle ragazzine di oggi, mi fa seriamente riflettere il fatto che la posizione della partoriente possa essere da qualcuno considerata scandalosa, come in effetti accade.
La stilizzazione del volto di entrambe le immagini dice molto: parla di una sorta di anonimato, o meglio, di perdita di identità, che ha luogo sia durante il parto, sia durante qualunque passaggio tra mondi diversi, in cui si lascia ciò che si era per diventare “nuovi” ed è una perdita di identità che riguarda sia la partoriente, che fa effettuare il passaggio, sia il neonato, che lo effettua e che non è ancora nessuno. Improvvisamente comprendo anche perché la morte non abbia volto, perché sia rappresentata da uno scheletro oppure coperta da un cappuccio nero: non ci avevo mai pensato prima, ma non c’è identità, nella morte, sia perché chi muore in qualche modo perde l'ego in cui si identifica, sia perché la morte non distingue nessuno, non fa eccezioni.
Il copricapo sulla testa di Pachamama sembra la ruota di un pavone, o forse è un’aureola. Ha un’apertura a ventaglio, a 180 gradi: l’estensione dell’abbraccio di una madre, una madre a braccia aperte, un vuoto, uno spazio libero da riempire, un posto dove stare: il posto per noi.
Pachamama mostra anche i seni: in uno è dipinto un sole, nell’altro, una luna. Il mito racconta che Pachamama partorì due gemelli: che fossero questi, i suoi due figli? Che Pachamama sia madre della luce del sole e della luna che illumina la notte? Che sia madre del principio maschile e femminile? Che sia matrice di tutto ciò che esiste?
Attraverso i suoi seni dipinti, o tatuati, è espressa l’interezza e la totalità: lei è colei che nutre tutto. Lei è tutto. Ma non solo. Sposto continuamente lo sguardo da un seno all’altro, dalla luna al sole, e capisco che il segreto di Pachamama, il mistero della sua forza e il suo messaggio, non sta nell’identificarsi con una delle due polarità da lei mostrate, ma nell’identificarsi con “il passaggio” da una polarità all’altra. In questo senso, ella è tutto: perché non si può essere tutto se ci si identifica, se ci si irrigidisce su una posizione, su un ruolo, su un aspetto. Invece si può essere tutto quando si passa da una cosa all’altra in continuazione.
Ho studiato per qualche tempo danza del ventre, una disciplina che, al di là della valenza seduttiva e “da harem” acquisita nel tempo, nasce come danza sacra delle donne ed è collegata alla dea Iside. A completamento di ogni figura, quale che fosse, l’insegnante ci faceva riportare alla posizione di partenza, e ci faceva incrociare le braccia ad X sul petto, a livello del cuore. Questa posizione serve a richiamare la centratura, serve a riprendere equilibrio e come pausa, prima di iniziare un nuovo passo. Le braccia, nell’antica danza dedicata ad Iside, vanno incrociate tra i seni perché lì c’è il cuore. Questo vedo, oscillando lo sguardo da un seno all’altro di Pachamama: non la scelta tra sole e luna, non l’”aut aut” ma l’”et et”, il passaggio dall’uno all’altra tramite il cuore, perché è questo che c’è tra i seni. Anzi: solo per mezzo del cuore può aver luogo questo passaggio. E il cuore non è prerogativa delle donne, ma di tutto ciò che è vivo, quale che sia il suo genere. Dunque, Pachamama suggerisce la trasformazione, il cambiamento, il passaggio. Lei è il ponte, il veicolo, il canale, dipinto, del resto, anche al centro del suo corpo, dove, già predisposto per uscire alla luce, sta il contorno di un bambino che deve nascere.
Il simbolo di Pachamama è il rospo, animale sacro nella tradizione contadina delle Ande, dove rappresenta la ricchezza. Simile al rospo, era invece la rana ad essere sacra presso gli Egizi. Se nelle Ande sognare un rospo è interpretato come l’arrivo della ricchezza, presso gli Egizi la rana preannunciava l’arrivo delle piogge che, ingrossando il Nilo, avrebbero garantito la piena e di conseguenza la fertilità della terra egizia, grazie al limo fecondo che ricopriva il terreno una volta che le acque si fossero ritirate.
La magia del rospo, come degli anfibi in generale, è da ricercarsi nella sua capacità di scomparire nel fango per uscirne al momento favorevole. Sembra quasi dotato di una seconda vita e in effetti, anche il nome scientifico allude alla sua doppiezza: “anfibio”, “due vite”, con riferimento alla fase in cui il girino, non ancora rana, vive nelle acque come un pesce e con l’aspetto di un pesce, e all’altra fase in cui invece, da adulto, vive sulla terra ferma. Tra le varie ritualità associate a Pachamama, gli andini usano nascondere doni, alimenti, tabacco, denaro o altro, in alcune pentole sottoterra, come offerta alla dea. Presso gli egizi era venerata una dea-levatrice dalla testa di rana, di nome Heqet, o Heket, che sovrintendeva ai misteri del passaggio dalla vita, alla morte, alla nascita e rinascita… Il passaggio, ancora una volta: tra luoghi, tra mondi diversi, che non ha neppur senso mantenere separati e distinti poiché Pachamama è la madre-tutto.
Heqet è una delle dee che alcuni mitologi pongono alle origini della figura greca di Ecate, l’anziana dea dei trivi, che ha già dentro di sé tutti i passaggi e le fasi della vita della donna; il trivio fa probabilmente riferimento alla posizione privilegiata di cui si può godere da un incrocio, che concede la vista su tutte le direzioni: allo stesso modo, è privilegiata la posizione dell’anziana, che ha già visto ogni cosa nella vita. Anche Ecate, come Heqet e Pachamama, è legata al passaggio da un mondo all’altro, oltre che ai cicli naturali di vita, morte e rinascita. Nel mito di Demetra e Persefone, infatti, è lei che accoglie Persefone alla sua uscita dagli Inferi per restituirla a Demetra ed è l’unica dea, insieme a Persefone ed Hermes, che ha il potere di andare e tornare dall’Ade.
Anche l’archeologa Marja Gimbutas parlò della dea rana come di colei su cui confluivano i poteri della morte e della rigenerazione; Gimbutas mostrò tracce e manufatti di una devozione che durò quasi 10000 anni. Inoltre in molte tombe greche, romane ed egizie sono stati trovati amuleti a forma di rana, e lampade in terracotta con il sigillo della rana, recanti iscrizioni del tipo “io sono la resurrezione”. La mentalità di chi vive a stretto contatto con i cicli naturali è semplice, come è semplice la natura: la rana vive tra la terra e l’acqua, in zone di confine; vive due vite e si trasforma; sembra scomparire per sempre nel fango, e invece ricompare quando le condizioni meteorologiche sono favorevoli: per chi sa osservare la natura, è semplice trovare il collegamento tra la rana, o il rospo, e il simbolismo della trasformazione.
Non posso fare a meno di ripensare a quando ero bambina, alle passeggiate estive con mia madre, in campagna, di sera, lungo i fossi, accompagnate dalle lucciole, e a quando cantavano le rane e lei mi diceva che sarebbe venuta la pioggia… Saggezza contadina.
Poi ripenso al gracidio delle rane, a quel suono riprodotto nella nostra lingua umana: gra… gra… gra…
… Gra… come grazia… gra… come gravida… gra… come gravità… gra… come gratis, gratuità, gratitudine…
Grazia come Ave Maria, gratia plena… gratis come un dono, dono come gebu, la runa che significa G, che simboleggia il dono e che ha la forma di una X, come la X delle braccia sul petto delle danzatrici del ventre…
Sono sempre più in fermento: mi sento come la schiuma che sta traboccando da un boccale pieno di birra dorata e decido di fare una piccola ricerca etimologica. Sulle parole che cominciano per “Gra”.
Gravità e gravidanza hanno qualcosa in comune: derivano dal latino “gravis” e rimandano al concetto di pesantezza e di pienezza; gratuità e grazia, invece, derivano dal greco “charis”, che indica ogni cosa che si rende piacevole agli altri: l’avvenenza, il favore, ma anche il dono, la ricompensa. In qualche modo, la pienezza e la bellezza sono collegate e, del resto, in “ave Maria, gratia plena” si afferma esattamente questo: chi è gravida, è piena di grazia, e chi ha la grazia dentro di sé, porta la vita. Fra le immagini di Pachamama ce n’è una, originaria di Cerro Rico, in Bolivia, che rappresenta la dea come una Madonna, esempio del sincretismo religioso che i gesuiti hanno operato nelle terre conquistate dagli spagnoli.
La dea è interamente ricoperta da un abito rosso, decorato da fiori e animali, e reca ai suoi piedi un globo biancastro, una specie di palla che rappresenta il mondo, un’immagine incredibilmente simile alla figura delle papesse in certi tarocchi. Il legame simbolico con la Madonna e, quindi, con il concetto di femminile portatore di grazia e fecondità, qui è particolarmente evidente.
Anche in altre lingue esistono parole che si sviluppano a partire da suono simile a “gra”, e che sono riferibili a significati analoghi a quelli già citati: growth in inglese, ad esempio, che significa crescita, o croitre, crescere, in francese, da cui i famosi croissants, di cui non tutti sanno che sono considerati dolci o pani delle streghe, così chiamati perché a forma di luna crescente. La cosa divertente è che tutte queste parole derivano da una radice hindi o sanscrita, -kar, o -kra, che significa “Creato”.
È bastato ascoltare le rane.
Per curiosità, ho cercato nell’alfabeto ebraico il significato della lettera G. Ho trovato che si chiama Ghimel, e che simboleggia beneficienza e culmine. Secondo la cultura ebraica, Ghimel rappresenta un uomo che vede un povero sulla soglia della porta di casa, e gli porge del cibo: ancora una volta ritorna il tema della soglia e della concessione di nutrimento, che significa concessione di vita, fertilità e abbondanza; Ghimel è associata al numero 3, che rappresenta il figlio, nel senso di essere che si forma e nasce dalla precedente unione di due altri esseri. Il numero 3-figlio è l’entità perfetta che allude alla capacità di neutralizzare forze contrastanti per unirle (di nuovo l’integrazione) in una terza, più resistente, più duratura e portatrice di continuazione. Sono gli stessi concetti di cui parla Mamani, collegati a Pachamama.
Un’idea inconsueta suggerita da Pachamama, che rompe uno stereotipo tipicamente occidentale molto radicato, è la relazione tra il principio femminile e l’equilibrio. Nei secoli, per noi occidentali l’equilibrio è sempre stato sinonimo di ordine e in relazione con il maschile: partendo dalla Genesi (dove Dio crea sostanzialmente mettendo ordine tra le cose e separandole, dividendole e categorizzandole fra loro in modo da dare loro un’identità e da distinguerle l’una dall’altra) arrivando al predominio della ragione e della capacità di analisi, viste sempre come qualità tipicamente maschili. All’opposto, solitamente, la donna è l’incarnazione dell’isteria, della follia, della debolezza, dell’incostanza e dello squilibrio. La donna è irrazionale, emotiva, instabile, debole; non a caso è collegata alla luna, che indica la mutevolezza e la mancanza di stabilità (quando non addirittura la pazzia) mentre l’uomo è collegato alla chiarezza senza dubbi del sole. L’equilibrio è tendenzialmente riferito al maschile, per le caratteristiche di razionalità, fermezza e determinazione dell’uomo. Non si trova mai una relazione tra l’equilibrio come frutto dell’aderenza ad un principio femminile: non c’è quasi mai un femminile portatore di legge, ordine ed equilibrio, se si escludono alcuni miti greci, come Atena, o la stessa Vergine Maria, che sono comunque in secondo piano rispetto a superiori principi maschili. Invece, ecco che Hernàn Huarache Mamani parla dell’esigenza di riferirsi ad una divinità femminile per riportare l’equilibrio nel mondo, per salvarci dal caos che sta per sommergere ogni cosa. Da dove vengono, esattamente, il disordine e lo squilibrio? Mamani parla del dio denaro e della tendenza alla proprietà privata: ma tutto ciò è riconducibile alla tendenza al possesso, che non è male in sé, quanto per il fatto che il possesso, così come lo intendiamo e applichiamo oggi, significa “prendere qualcosa da un tutto e separarlo per farlo mio”: il possesso è andato a coincidere con il separare, con lo staccare; non è altro che voler tenere qualcosa unito a noi attraverso un’azione disgregatrice su qualcos’altro. Ogni volta che differenziamo, distinguiamo, separiamo, operiamo un “solve”, che si oppone al “coagula” necessario all’opera d’amore. Per ottenere l’equilibrio, più che separare per mettere ordine, si deve mettere armonia. Ma non si può fare armonia quando si escludono delle parti di una totalità. Ciò che noi abbiamo dimenticato e perduto, è il concetto di armonia fra le parti, di bellezza come frutto della grazia e, viceversa, di grazia come naturale succedere alla bellezza. La bellezza per noi moderni, invece, è fatta di tagli. Anche chirurgici.
Certo, Mamani gode di una posizione privilegiata e di un punto di vista speciale sulle cose, perché è un curandero. Il curandero è una persona che vive il presente: in lui manca sia la proiezione sul futuro sia il continuo rimuginare sul passato, azioni sul tempo tipicamente moderne e “nostre”, derivate dalla credenza in un “regno dei cieli”, in una felicità e in un premio non gratuiti ma da guadagnare, che giungeranno solo alla fine dei tempi, e da una concezione del tempo lineare, e non ciclica, che ci spinge a vedere le cose come in un continuum fra il “fu”, l’”è” e il “sarà”. Anche vedere il tempo in questo modo crea separazione e scissione. In Pachamama, questa forma di separazione manca: perché lei è “madre spazio-tempo”. Lo spazio, che è il passaggio da un luogo all’altro e che non permette ubiquità agli esseri umani, diventa una dimensione rotonda, come il suo copricapo e come il suo corpo; il tempo, linea orizzontale che va dal passato al futuro, diventa solo il momento, il punto presente. Come l’immagine di un cerchio, diviso a metà, Pachamama concentra in sé tutte le dimensioni. Come nella ruota di medicina dei nativi americani, come nella rosa dei venti, come nel coperchio del pozzo del Calice di Glastonbury. E come nelle rappresentazioni del Cristo in maestà, dove il Cristo, cioè il figlio, il dono perfetto, l’eternità garantita dalla continuazione della specie, il frutto dell’amore, la conferma concreta dell’amore e il dono che un uomo dà ad una donna e che una donna dà ad un uomo, è al centro di una cornice a forma di mandorla. Un’elaborazione dell’originale forma del cerchio. Cos’altro, se non l’apertura sacra del grembo materno? Mandorla, in francese, si dice amande, che deriva dal latino amanda, da amare…
Un sincronico significativo: ho accennato, all’inizio, al fatto che quando mi accingo ad approfondire una divinità o un mito, osservo ciò che accade intorno a me. Questo articolo mi è stato proposto il giorno di San Valentino. In seguito, dopo averlo completato, ho scoperto che presso i romani il periodo di San Valentino era chiamato lupercalia ed era dedicato a Pan, nella sua forma di Luperco, protettore del gregge. Pan è il dio dell’istinto naturale e selvaggio, della terra, dei boschi e della sessualità spontanea, gioiosa e creativa. Il suo nome, in greco, significa “tutto”.
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